Abbiamo incontrato Rodolfo Bisatti dopo la proiezione del suo film Il giorno del falco al London Film Festival 2004. Con Rodolfo abbiamo parlato del cinema, della sua morte e della sua resurrezione.
Marco Zee-Jotti – Dal breve incontro con il pubblico dopo la visione del film, ho avuto l’impressione che tu sostenga una concezione piuttosto “forte” del cinema.
Rodolfo Bisatti – Per me il cinema è Arte. Detto questo, fermiamoci per trenta secondi e poniamoci alcune domande. E troviamo alcune risposte. Cos’è successo dopo la morte di Pasolini? Dopo la morte di Tarkovski? Dopo le morti di Kieslowski e di Ken Loach? E dopo la morte di Olmi? Io non intendo la morte fisica, ma quella intellettuale. Perché il Cinema è morto? Tutti dicono: è nata la Televisione, il linguaggio è cambiato, noi stiamo cambiando. Io credo che chi è morto è il Pensiero. Sono tormentato, inquieto, ansioso, perché dentro di me il Pensiero è ancora vivo. E penso che molta gente tenga viva questa speranza, come una necessità di questi tempi. Allora, cominciamo di nuovo a pensare. Molte università europee, centri di eccellenza, sono divenute luoghi di un’accademia ipocriti e osceni, che non esprimono più alcun Pensiero. Pasolini fu un artista scomodo, perché non era solo uno scrittore, un filosofo, un regista, ma era anche politicamente coinvolto. Se “pensiamo”, non possiamo non essere “politici”. Uccidendo il pensiero, la politica e la poesia, l’intero mondo diventa sterile. Allora fu inventata l’autocensura, se parliamo troppo veniamo emarginati. Il Cinema Italiano, ad esempio, è una soap insulsa, una telenovela, sciovinista e manipolatrice, banale. Se io confesso questo, e dico che non mi sento un regista italiano, e non spenderei così tanto denaro per films di bassa qualità, io vengo cancellato da quel mondo. Con Berlusconi ha successo chi è un facile target, di poco conto, facile da realizzare. (?) Ma cosa ci proponiamo? Come vogliamo riconquistare il Pensiero perduto? C’è un solo modo: ed è riconsiderare la “poesia” come il centro della conoscenza. Quando dico poesia intendo dire ogni cosa intorno a noi, riconsiderare i bambini come una straordinaria sorgente visionaria, riconsiderare il mondo femminile e il suo eros, che abbiamo dominato per distruggerlo in migliaia d’anni di Cattolicesimo; riconsiderare la trasgressione come la sola via per ribellarci, dentro questa gabbia, questo feroce consumismo. Dobbiamo ricominciare a lottare, a combattere, che non significa combattere per una ideologia politica, ma per la libertà del nostro pensiero, il nostro diritto a pensare liberamente. Negli anni ’80 e ’90, il cinema italiano ha fatto flop, ed è diventato ripetitivo, ridondante, televisivo. Quel clientelismo che ha dato il semaforo verde ad alcuni registi e rosso ad altri ha soffocato il cinema italiano.
RB - L’azione poetica deve essere considerata come il vero scopo biologico dell’umanità. Se pensiamo che fare un film sia solo un’operazione commerciale, o politica, faremo un lavoro che non farà presa sulla società, sulla sua consapevolezza. Io vorrei fare lavori sinceri, autentici, e diretti, con il desiderio di scuotere una società che è schiava dell’arroganza dello stereotipo del cinema americano ed anche europeo. Che è, alla fine, l’idea di andare al cinema per guardare ciò che vogliamo vedere per non cambiare, e nemmeno rinnovare, la nostra visione del mondo. Cos’è che troviamo difficile quando in un film c’è pensiero? Probabilmente che non sempre è il nostro pensiero, è qualcosa che troviamo provocante e che ci spinge a riflettere. Il pensiero è quindi il mutamento dello stato dell’uomo, che in qualche modo può scalzare la nostra vita e spingerci verso un cambiamento, una crisi. Nel mio film, Il giorno del falco, il giornalista e il cameraman, che insistono nell’analizzare un insignificante frammento di notizia, cosa scoprono? Scoprono che i due uomini che hanno tentato la rapina in una banca, hanno deciso di suicidarsi. Non vogliono vivere più a lungo in quel luogo. Noi arriviamo alla verità procedendo dall’inesplicabile, analizzando l’emozionale, l’esistenziale, e il sacro contro tutte le pressioni per lasciar cadere l’indagine. Se noi evitiamo di far questo genere di lavoro, se consideriamo l’artista solo come il narratore di storie convenzionali, io non sono d’accordo, non mi sento in linea con questo atteggiamento, non mi stimola, non mi arricchisce. Ho visto lavori fatti da ventenni, che sono molto più interessanti dei narratori di serie. Non è vero che non esiste altra scelta, piuttosto c’è necessità di tenere sotto silenzio il nuovo e il rivoluzionario.
MZJ – Se ho ben capito, tu dici che piuttosto che precipitarsi a caccia di notizie, si dovrebbe fermarsi a riflettere, e così noi…
RB – Se decidiamo che vogliamo capire la società italiana d’oggi, domandiamo ai registi, agli scrittori, ai filosofi, di andare dentro le città, e analizzare come vive la gente, con tutti gli strumenti che abbiamo, incluso il cinema. Questo non succede.
MZJ – Questo mi fa pensare alla scarsità di documentari prodotti in Italia…
RB – Non solo non esiste una cultura del documentario, ma non esiste veramente una cultura della narrazione. Quella che abbiamo è la cultura di chi confeziona e usa ancora e ancora, fino a creare uno stereotipo. Una volta che hai un’idea di come va il mondo, tu la usi, scrivendo, o facendo films, o programmi TV. Non è una ricerca di qualcosa di sconosciuto che devi indagare. Non sei più un esploratore. La realtà può darci tantissimi stimoli e possibilità per la ricerca. Ma occorre aprirsi al mondo, e da quest’incontro (con la realtà), io voglio comunicare qualcosa, senza idee preconcette. Il cinema ora si nutre d’altro cinema, nel senso peggiore, perché questo nutrimento non diventa carne e sangue ma merda. La commedia italiana di genere degli anni ’60, è stata reinventata in un modo peggiorativo, filtrato dalla televisione, usando temi alla moda, pieni di stupido umorismo. Quando guardi questi films, non riesci a riconoscere un’identità, una specifica voce autoriale, sono troppo generici, possono essere facilmente scambiati tra loro. Parlano delle stesse cose, sono della stessa epoca, sono l’esito abortivo di un duro momento vissuto dal cinema italiano negli anni ’70. C’è un solo autore con molti nomi. E’ un cinema di maniera, ma è chiamato cinema d’autore, molto ripetitivo, piatto, brillante, spiritoso ma non morde. Il Cinema deve essere ricerca, sperimentazione, che accetta di correre dei rischi, analisi, ritratto del suo autore. Se attraverso la tua analisi e il tuo fare film scopri che ti fa soffrire, che tu sei un alieno in quel mondo, che tu sei un disoccupato, che sei un giornalista TV frustrato, allora devi dirlo, devi avere l’onestà intellettuale di dirlo. Questo non significa autobiografismo, ma parlare della realtà che conosci veramente. Un film è la tua relazione con il mondo, non è il mondo, non sei tu, ma la relazione. Così, invece di cercare la storia di successo, che rende felice il produttore, tu cerca dentro di te, e fuori.
MZJ – Tu ti proponi nel tuo film di descrivere il locale, appari legato all’area geografica in cui è stato girato il film, il florido Nord-Est.
RB – Posso dire che si tratta di un film che narra in che modo nasce un film, come modello di un modo di vivere. In questo film si vedono due personaggi/maschere disperate, un meccanico d’auto e un fioraio/poeta che non riescono ad uscire dalla loro disperazione e dalla loro solitudine. Scelgono di vivere un giorno da eroi tentando una rapina suicida in una banca, e lo fanno con una specie di rituale. Poi abbiamo un’altra coppia, il giornalista TV e il cameraman, che sopravvivono lavorando per una piccola televisione locale, e studiano il caso. Sono simili all’altra coppia – al punto di proiettare se stessi nei due rapinatori. Una vita miserabile, priva d’affetti, improduttiva, dove la sola cosa da fare è guadagnarsi da vivere. La prima coppia (i rapinatori) è spinta dalla passione, mentre l’altra coppia, attraverso l’analisi, trova un modo per vendicare se stessa e portare a termine una rapina di successo. Essi usano la vita di qualcun altro per trovare sé e riscattare la propria vita. La morale di questa storia è: se vuoi conoscere devi conoscere te stesso, e gli altri intorno a te, devi cercare di vivere con dignità. Non puoi solo lavorare in ufficio, o essere un giornalista, o un meccanico, solo attraverso il desiderio di esplorare e creare tu puoi dare un senso alla tua vita ed uscire fuori da questa situazione contemporanea frustrante. L’autore è qualcuno che usa una storia per rappresentare un’azione, essendo un’azione fare un film e mostrarlo al pubblico. Per ciò che mi riguarda, sono due anni di lavoro, problemi con la produzione, problemi personali, ecc. Per me questa possibilità di comunicazione è un passo in avanti nella mia esistenza. Non è qualcosa fatto per essere felici, o per rendere felici.
MZJ – Alla fine dell’incontro, dopo la proiezione del film, qualcuno ti ha rivolto una domanda interessante circa la tua collaborazione con Ermanno Olmi.
RB – Intorno alla metà degli anni ’80 lavoravamo ad Ipotesi Cinema, a Bassano del Grappa, un piccolo paese del Nord Italia. Questo luogo è stato un importante laboratorio sulla comunicazione audiovisiva negli ultimi dieci anni, ed è diretto dal regista Ermanno Olmi. E’ stato molto importante perché, ad un certo momento, con l’introduzione della tecnologia digitale, Ipotesi Cinema ha avviato un laboratorio interessato non tanto a realizzare films basati su un soggetto o un’idea, ma piuttosto ad utilizzare il cinema come uno strumento per esplorare la realtà. Molti giovani allievi, armati delle loro videocamere, girarono per città italiane ed europee, per una caccia non programmata, un modo per “catturare” la realtà. E questo fu fatto per mezzo di una tecnica non invasiva, che chiamammo “la tecnica dell’ascolto”. Tu osservi attentamente un evento, con una certa disposizione della mente, che è quella dell’attesa, della posizione. Registri pochi minuti alla volta. Dopodiché esamini il materiale attraverso una lunga visione, o “ascolto”, e scopri dentro il materiale il messaggio che la tua relazione con il mondo vuole comunicare. In questo modo, noi scopriamo che la vita come suo “proprio”, ha una storia da raccontare. L’esistente è più significativo di ciò che è inventato, e uno potrebbe raccontare storie solo guardando. Puoi creare connessioni complesse, interessanti, originali. Se prendi la telecamera e durante il giorno registri qualcosa, dopo un mese avrai materiale che è molto più interessante di molti films girati.
MZJ – In che modo questo è diverso da una documentazione della realtà, o dal costruire una storia?
RB – Ti faccio un esempio. Chi vogliamo seguire delle persone qui intorno? Quella ragazza. La seguiamo, guardiamo cosa fa, dove va, chi incontra. La differenza fra il vecchio cinema e il nuovo cinema è che noi non lo sappiamo, ma siamo curiosi, e vogliamo scoprirlo. Noi scopriamo che ha un amante di 89 anni che è un grande produttore americano, oppure scopriamo che sua nonna è ammalata, che lei è una madre sola…noi non sappiamo.
MZJ – Non è probabile che troviamo qualcosa che non suscita alcun interesse nel pubblico?
RB – Non lo sai, la segui, in questo modo raccogli materiale che non è un reality TV, più tu partecipi alla sua vita, maggiormente tu puoi “rubare”, impossessarti dell’essenza della vita. Questo materiale, parole, gesti, comportamenti, può anche essere usato per fare un film. La grande “letteratura” del cinema, non è solo quella scritta, ma anche quella audiovisiva. Così, invece di libri scritti noi usiamo la telecamera per scoprire come la vita è organizzata nelle sue interazioni quotidiane. Dopo la giornata con la ragazza, ci sono io, con la mia memoria che diventa attiva, quindi può diventare tutto ciò che vuoi, copione, parola scritta. Non si tratta di documentare, ma di capire le connessioni. Solo dopo, quando ciò è compreso e digerito, si passa alla realizzazione del film.
MZJ – Così il legame, la connessione…è la memoria?
RB – Sì, ma non come un archivio, come una specie di esperimento del pensare che ti permette di vedere il passato come futuro, dentro il presente. Ad esempio, io tra poco non ti rivedrò più, ma ti ho registrato, un certo sorriso, la somiglianza con qualcun altro, questa è la mia memoria, tu mi hai fornito materiale per scrivere. Se io uso anche una telecamera – che è più o meno quello che state facendo girando questa intervista – io ho anche qualche cosa di tangibile, concreto, che non esclude la mia personale impressione che ho di te. Nel mio film, il cameraman gira materiale giorno dopo giorno. Con un occhio guarda alla realtà esterna, e con l’altro a quella interiore. Mario opera il legame tra le due. La realtà esterna può essere vista molte volte di seguito, quando viene il tempo – è la metafora della “postazione per la memoria” – scatta la connessione tra la tua memoria personale e ciò che è accaduto. La differenza tra il vecchio poeta e il meccanico, e il giornalista e il cameraman, è che questi ultimi hanno utilizzato la conoscenza come uno strumento per cambiare. La vera conoscenza non è un deposito d’informazioni, è l’abilità di collegare, l’abilità di fare della tua vita un film, come qui. Il cinema serve come uno strumento per vivere pienamente, non è una via di fuga, ma un’opportunità per trovare se stessi. Se eviti questa ricerca finisci col fare lavori che possono avere un impatto sul botteghino, ma non sulla realtà. Alla gente oggi occorrono specchi per guardarsi, che siano belli o brutti, cattivi o buoni. Nel momento in cui ti guardi, puoi dire “oh, sì, occorre che mi sbarbi! Oppure, devo perdere peso…”
MZJ – Tu sembri affascinato da Londra, perché?
RB – Penso che a Londra ci sia una cultura maggiormente laica, più rispetto per l’altro, per il diverso. Questo concorda con la mia idea di società complessa, multiversa, dove la diversità diventa un valore. Differenti etnie, diverse realtà sociali convivono, in modo problematico ma anche interessante. Questa è Londra, ed io vorrei fare films che rappresentano la complessità della vita – che Londra sembra rappresentare così bene – , che ogni spettatore può leggere in modo personale.
Visions of cinema/Visioni del cinema
RispondiEliminaAbbiamo incontrato Rodolfo Bisatti dopo la proiezione del suo film Il giorno del falco al London Film Festival 2004. Con Rodolfo abbiamo parlato del cinema, della sua morte e della sua resurrezione.
Marco Zee-Jotti – Dal breve incontro con il pubblico dopo la visione del film, ho avuto l’impressione che tu sostenga una concezione piuttosto “forte” del cinema.
Rodolfo Bisatti – Per me il cinema è Arte. Detto questo, fermiamoci per trenta secondi e poniamoci alcune domande. E troviamo alcune risposte.
Cos’è successo dopo la morte di Pasolini? Dopo la morte di Tarkovski? Dopo le morti di Kieslowski e di Ken Loach? E dopo la morte di Olmi?
Io non intendo la morte fisica, ma quella intellettuale. Perché il Cinema è morto?
Tutti dicono: è nata la Televisione, il linguaggio è cambiato, noi stiamo cambiando.
Io credo che chi è morto è il Pensiero. Sono tormentato, inquieto, ansioso, perché dentro di me il Pensiero è ancora vivo. E penso che molta gente tenga viva questa speranza, come una necessità di questi tempi.
Allora, cominciamo di nuovo a pensare.
Molte università europee, centri di eccellenza, sono divenute luoghi di un’accademia ipocriti e osceni, che non esprimono più alcun Pensiero.
Pasolini fu un artista scomodo, perché non era solo uno scrittore, un filosofo, un regista, ma era anche politicamente coinvolto. Se “pensiamo”, non possiamo non essere “politici”. Uccidendo il pensiero, la politica e la poesia, l’intero mondo diventa sterile. Allora fu inventata l’autocensura, se parliamo troppo veniamo emarginati.
Il Cinema Italiano, ad esempio, è una soap insulsa, una telenovela, sciovinista e manipolatrice, banale. Se io confesso questo, e dico che non mi sento un regista italiano, e non spenderei così tanto denaro per films di bassa qualità, io vengo cancellato da quel mondo. Con Berlusconi ha successo chi è un facile target, di poco conto, facile da realizzare. (?)
Ma cosa ci proponiamo? Come vogliamo riconquistare il Pensiero perduto?
C’è un solo modo: ed è riconsiderare la “poesia” come il centro della conoscenza.
Quando dico poesia intendo dire ogni cosa intorno a noi, riconsiderare i bambini come una straordinaria sorgente visionaria, riconsiderare il mondo femminile e il suo eros, che abbiamo dominato per distruggerlo in migliaia d’anni di Cattolicesimo; riconsiderare la trasgressione come la sola via per ribellarci, dentro questa gabbia, questo feroce consumismo.
Dobbiamo ricominciare a lottare, a combattere, che non significa combattere per una ideologia politica, ma per la libertà del nostro pensiero, il nostro diritto a pensare liberamente.
Negli anni ’80 e ’90, il cinema italiano ha fatto flop, ed è diventato ripetitivo, ridondante, televisivo. Quel clientelismo che ha dato il semaforo verde ad alcuni registi e rosso ad altri ha soffocato il cinema italiano.
MZJ – Cos’è il Pensiero che tu vuoi ricostruire?
RispondiEliminaRB - L’azione poetica deve essere considerata come il vero scopo biologico dell’umanità. Se pensiamo che fare un film sia solo un’operazione commerciale, o politica, faremo un lavoro che non farà presa sulla società, sulla sua consapevolezza.
Io vorrei fare lavori sinceri, autentici, e diretti, con il desiderio di scuotere una società che è schiava dell’arroganza dello stereotipo del cinema americano ed anche europeo.
Che è, alla fine, l’idea di andare al cinema per guardare ciò che vogliamo vedere per non cambiare, e nemmeno rinnovare, la nostra visione del mondo.
Cos’è che troviamo difficile quando in un film c’è pensiero? Probabilmente che non sempre è il nostro pensiero, è qualcosa che troviamo provocante e che ci spinge a riflettere.
Il pensiero è quindi il mutamento dello stato dell’uomo, che in qualche modo può scalzare la nostra vita e spingerci verso un cambiamento, una crisi.
Nel mio film, Il giorno del falco, il giornalista e il cameraman, che insistono nell’analizzare un insignificante frammento di notizia, cosa scoprono? Scoprono che i due uomini che hanno tentato la rapina in una banca, hanno deciso di suicidarsi. Non vogliono vivere più a lungo in quel luogo. Noi arriviamo alla verità procedendo dall’inesplicabile, analizzando l’emozionale, l’esistenziale, e il sacro contro tutte le pressioni per lasciar cadere l’indagine.
Se noi evitiamo di far questo genere di lavoro, se consideriamo l’artista solo come il narratore di storie convenzionali, io non sono d’accordo, non mi sento in linea con questo atteggiamento, non mi stimola, non mi arricchisce.
Ho visto lavori fatti da ventenni, che sono molto più interessanti dei narratori di serie.
Non è vero che non esiste altra scelta, piuttosto c’è necessità di tenere sotto silenzio il nuovo e il rivoluzionario.
MZJ – Se ho ben capito, tu dici che piuttosto che precipitarsi a caccia di notizie, si dovrebbe fermarsi a riflettere, e così noi…
RB – Se decidiamo che vogliamo capire la società italiana d’oggi, domandiamo ai registi, agli scrittori, ai filosofi, di andare dentro le città, e analizzare come vive la gente, con tutti gli strumenti che abbiamo, incluso il cinema. Questo non succede.
MZJ – Questo mi fa pensare alla scarsità di documentari prodotti in Italia…
RispondiEliminaRB – Non solo non esiste una cultura del documentario, ma non esiste veramente una cultura della narrazione.
Quella che abbiamo è la cultura di chi confeziona e usa ancora e ancora, fino a creare uno stereotipo. Una volta che hai un’idea di come va il mondo, tu la usi, scrivendo, o facendo films, o programmi TV.
Non è una ricerca di qualcosa di sconosciuto che devi indagare. Non sei più un esploratore. La realtà può darci tantissimi stimoli e possibilità per la ricerca. Ma occorre aprirsi al mondo, e da quest’incontro (con la realtà), io voglio comunicare qualcosa, senza idee preconcette.
Il cinema ora si nutre d’altro cinema, nel senso peggiore, perché questo nutrimento non diventa carne e sangue ma merda.
La commedia italiana di genere degli anni ’60, è stata reinventata in un modo peggiorativo, filtrato dalla televisione, usando temi alla moda, pieni di stupido umorismo. Quando guardi questi films, non riesci a riconoscere un’identità, una specifica voce autoriale, sono troppo generici, possono essere facilmente scambiati tra loro. Parlano delle stesse cose, sono della stessa epoca, sono l’esito abortivo di un duro momento vissuto dal cinema italiano negli anni ’70. C’è un solo autore con molti nomi.
E’ un cinema di maniera, ma è chiamato cinema d’autore, molto ripetitivo, piatto, brillante, spiritoso ma non morde.
Il Cinema deve essere ricerca, sperimentazione, che accetta di correre dei rischi, analisi, ritratto del suo autore.
Se attraverso la tua analisi e il tuo fare film scopri che ti fa soffrire, che tu sei un alieno in quel mondo, che tu sei un disoccupato, che sei un giornalista TV frustrato, allora devi dirlo, devi avere l’onestà intellettuale di dirlo.
Questo non significa autobiografismo, ma parlare della realtà che conosci veramente.
Un film è la tua relazione con il mondo, non è il mondo, non sei tu, ma la relazione. Così, invece di cercare la storia di successo, che rende felice il produttore, tu cerca dentro di te, e fuori.
MZJ – Tu ti proponi nel tuo film di descrivere il locale, appari legato all’area geografica in cui è stato girato il film, il florido Nord-Est.
RB – Posso dire che si tratta di un film che narra in che modo nasce un film, come modello di un modo di vivere.
In questo film si vedono due personaggi/maschere disperate, un meccanico d’auto e un fioraio/poeta che non riescono ad uscire dalla loro disperazione e dalla loro solitudine. Scelgono di vivere un giorno da eroi tentando una rapina suicida in una banca, e lo fanno con una specie di rituale.
Poi abbiamo un’altra coppia, il giornalista TV e il cameraman, che sopravvivono lavorando per una piccola televisione locale, e studiano il caso.
Sono simili all’altra coppia – al punto di proiettare se stessi nei due rapinatori.
Una vita miserabile, priva d’affetti, improduttiva, dove la sola cosa da fare è guadagnarsi da vivere.
La prima coppia (i rapinatori) è spinta dalla passione, mentre l’altra coppia, attraverso l’analisi, trova un modo per vendicare se stessa e portare a termine una rapina di successo. Essi usano la vita di qualcun altro per trovare sé e riscattare la propria vita.
La morale di questa storia è: se vuoi conoscere devi conoscere te stesso, e gli altri intorno a te, devi cercare di vivere con dignità. Non puoi solo lavorare in ufficio, o essere un giornalista, o un meccanico, solo attraverso il desiderio di esplorare e creare tu puoi dare un senso alla tua vita ed uscire fuori da questa situazione contemporanea frustrante.
L’autore è qualcuno che usa una storia per rappresentare un’azione, essendo un’azione fare un film e mostrarlo al pubblico.
Per ciò che mi riguarda, sono due anni di lavoro, problemi con la produzione, problemi personali, ecc. Per me questa possibilità di comunicazione è un passo in avanti nella mia esistenza. Non è qualcosa fatto per essere felici, o per rendere felici.
MZJ – Alla fine dell’incontro, dopo la proiezione del film, qualcuno ti ha rivolto una domanda interessante circa la tua collaborazione con Ermanno Olmi.
RispondiEliminaRB – Intorno alla metà degli anni ’80 lavoravamo ad Ipotesi Cinema, a Bassano del Grappa, un piccolo paese del Nord Italia. Questo luogo è stato un importante laboratorio sulla comunicazione audiovisiva negli ultimi dieci anni, ed è diretto dal regista Ermanno Olmi.
E’ stato molto importante perché, ad un certo momento, con l’introduzione della tecnologia digitale, Ipotesi Cinema ha avviato un laboratorio interessato non tanto a realizzare films basati su un soggetto o un’idea, ma piuttosto ad utilizzare il cinema come uno strumento per esplorare la realtà.
Molti giovani allievi, armati delle loro videocamere, girarono per città italiane ed europee, per una caccia non programmata, un modo per “catturare” la realtà.
E questo fu fatto per mezzo di una tecnica non invasiva, che chiamammo “la tecnica dell’ascolto”. Tu osservi attentamente un evento, con una certa disposizione della mente, che è quella dell’attesa, della posizione. Registri pochi minuti alla volta.
Dopodiché esamini il materiale attraverso una lunga visione, o “ascolto”, e scopri dentro il materiale il messaggio che la tua relazione con il mondo vuole comunicare.
In questo modo, noi scopriamo che la vita come suo “proprio”, ha una storia da raccontare. L’esistente è più significativo di ciò che è inventato, e uno potrebbe raccontare storie solo guardando.
Puoi creare connessioni complesse, interessanti, originali. Se prendi la telecamera e durante il giorno registri qualcosa, dopo un mese avrai materiale che è molto più interessante di molti films girati.
MZJ – In che modo questo è diverso da una documentazione della realtà, o dal costruire una storia?
RB – Ti faccio un esempio. Chi vogliamo seguire delle persone qui intorno? Quella ragazza. La seguiamo, guardiamo cosa fa, dove va, chi incontra. La differenza fra il vecchio cinema e il nuovo cinema è che noi non lo sappiamo, ma siamo curiosi, e vogliamo scoprirlo.
Noi scopriamo che ha un amante di 89 anni che è un grande produttore americano, oppure scopriamo che sua nonna è ammalata, che lei è una madre sola…noi non sappiamo.
MZJ – Non è probabile che troviamo qualcosa che non suscita alcun interesse nel pubblico?
RB – Non lo sai, la segui, in questo modo raccogli materiale che non è un reality TV, più tu partecipi alla sua vita, maggiormente tu puoi “rubare”, impossessarti dell’essenza della vita.
Questo materiale, parole, gesti, comportamenti, può anche essere usato per fare un film. La grande “letteratura” del cinema, non è solo quella scritta, ma anche quella audiovisiva. Così, invece di libri scritti noi usiamo la telecamera per scoprire come la vita è organizzata nelle sue interazioni quotidiane. Dopo la giornata con la ragazza, ci sono io, con la mia memoria che diventa attiva, quindi può diventare tutto ciò che vuoi, copione, parola scritta. Non si tratta di documentare, ma di capire le connessioni. Solo dopo, quando ciò è compreso e digerito, si passa alla realizzazione del film.
MZJ – Così il legame, la connessione…è la memoria?
RispondiEliminaRB – Sì, ma non come un archivio, come una specie di esperimento del pensare che ti permette di vedere il passato come futuro, dentro il presente.
Ad esempio, io tra poco non ti rivedrò più, ma ti ho registrato, un certo sorriso, la somiglianza con qualcun altro, questa è la mia memoria, tu mi hai fornito materiale per scrivere.
Se io uso anche una telecamera – che è più o meno quello che state facendo girando questa intervista – io ho anche qualche cosa di tangibile, concreto, che non esclude la mia personale impressione che ho di te. Nel mio film, il cameraman gira materiale giorno dopo giorno. Con un occhio guarda alla realtà esterna, e con l’altro a quella interiore. Mario opera il legame tra le due.
La realtà esterna può essere vista molte volte di seguito, quando viene il tempo – è la metafora della “postazione per la memoria” – scatta la connessione tra la tua memoria personale e ciò che è accaduto.
La differenza tra il vecchio poeta e il meccanico, e il giornalista e il cameraman, è che questi ultimi hanno utilizzato la conoscenza come uno strumento per cambiare. La vera conoscenza non è un deposito d’informazioni, è l’abilità di collegare, l’abilità di fare della tua vita un film, come qui.
Il cinema serve come uno strumento per vivere pienamente, non è una via di fuga, ma un’opportunità per trovare se stessi.
Se eviti questa ricerca finisci col fare lavori che possono avere un impatto sul botteghino, ma non sulla realtà.
Alla gente oggi occorrono specchi per guardarsi, che siano belli o brutti, cattivi o buoni. Nel momento in cui ti guardi, puoi dire “oh, sì, occorre che mi sbarbi! Oppure, devo perdere peso…”
MZJ – Tu sembri affascinato da Londra, perché?
RB – Penso che a Londra ci sia una cultura maggiormente laica, più rispetto per l’altro, per il diverso. Questo concorda con la mia idea di società complessa, multiversa, dove la diversità diventa un valore.
Differenti etnie, diverse realtà sociali convivono, in modo problematico ma anche interessante.
Questa è Londra, ed io vorrei fare films che rappresentano la complessità della vita – che Londra sembra rappresentare così bene – , che ogni spettatore può leggere in modo personale.