domenica 17 marzo 2013


Genericamente generici - Critica alla Critica
di Arthur Frame.

Mentre nella musica la classificazioni consentono una qualificazione identificativa formale: Musica classica, popolare, etnica, leggera, jazz, rock, heavy metal, pop, elettronica, dance ecc, nel Cinema tutto è affastellato nello stesso cestone, tuttal’piu’ ci sono i generi: triller, horror, commedia, fantascienza, fantasy, drammatico, western che si riferiscono esclusivamente ai temi trattati cioè ai contenuti, nulla viene esplicitato nel “genere” sulla forma, cioè sul linguaggio, come invece accade nella musica. Non solo, ma nel cinema le classi sono grossolane, stipate in due grandi tipologie: cinema impegnato d’autore con derive sperimentali o cinema commerciale d’intrattenimento. Questa bipolarità è la faccia della stessa medaglia e tende a omologare a unificare il cinema in un solo terribile monostile (come la “mononota” di Elvio)  perchè nell’80% dei casi il linguaggio è lo stesso per entrambi gli ordini commerciale/autoriale. Nulla fa supporre per esempio, a paragone con la letteratura, una differenziazione marcata tra il cinema di prosa e quello di poesia. Due tipologie che si distinguono formalmente e linguisticamente con decisione l’una dall’altra. Il cinema di poesia, cioè quello visionario, ( Dreyer, Tarkowskij, Fassbinder, Bresson, Morrysey, Rocha... via via fino al Terzo Cinema contemporaneo) ha preso le distanze dal pensiero unico tanto caro alla critica generalista. Mettendo sullo stesso piano (nel caos semiotico piu’ totale) film che in comune forse hanno solo il fatto di essere fisicamente impressionati nella pellicola. Questa aberrazione è epistemologicamente angosciante perchè troviamo nello stesso scaffale, nello stesso dizionario, nello stesso corso universitario, nel medesimo palisesto (al cinema no perchè i film di poesia sono banditi),  film e autori di narrativa prosaica assieme a opere di poetica lirica visionaria senza che questa differenza sia esplicitata con decisione semiologica. Moretti e Fassbinder cosa potranno mai avere in comune da un punto di vista artistico o linguistico? C’è qualcuno che oserebbe paragonarli? Aver utilizzato lo stesso supporto cioè la pellicola non autorizza a dichiarare che entrambi facciano del “cinema” d’autore. Sarebbe come asserire che Baricco e Joyce sono entrambi degli scrittori. La cosa suona male; è intronata, mancano dei passaggi.  Queste sono le conseguenze dell’omologazione storicista, dello strutturalismo semiologico e anche del famigerato pensiero relativo e/o debole, dal quale faremmo bene a liberarci al piu’ presto.
Che cosa hanno in comune Bach e Pupo? entrambi fanno musica? Certo entrambi appartengono al genere umano e poi? Purtroppo non abbiamo avuto nel cinema una  Visione come quella che Francesco Arcangeli ha avuto nel raccontare la pittura dal Romanticismo all’Informale.  Il Cinema, se vuole sopravvivere come arte espressiva,  deve avere il coraggio di prendere le distanze da se stesso e quello poetico visionario deve avere l’ardimento di rivendicare un proprio spazio vitale anche retroattivamente. Ancora una volta dovranno essere gli autori a brandire una posizione decisa. Certo sarà dura affrontare la “cricca” sempre piu’ ignorante, autocelebrativa, supponente, partitocompiacente, festivaliera, salottiera, discriminatoria, corrotta, gerontocratica e pessima anche da un punto di vista pedagogico, dei “mediatori culturali” i burocrati che picchettano i posti strategici della comunicazione in Italia; coloro che decidono cosa deve essere fatto e cosa no, cosa deve essere visto e cosa no, cosa la gente puo’ apprezzare e cosa è meglio nascondere
A cio’ fanno eccezione “solitari” pionieri noti e meno noti, giovani e vecchi che si sono dati e si danno un gran da fare per creare network alternativi, movimenti, pensieri e azioni. A tutti loro la nostra riconoscenza. Resta pero’ irrisolto il problema gnoseologico linguistico del cinema ammassato nel medesimo cestone e il videoanalfabetismo dilagante anche tra i piu’ giovani.

Nessun commento:

Posta un commento