Quando arrivai ad Amburgo fui sorpreso dalla fredda e intensa vitalità del porto fluviale, abituato alla mollezza dello scalo di Trieste. Avevo un buco dietro al collo, l’estrazione del lipoma era stata difficile, e la benda mal celava la ferita sierosa. L’albergo era luminoso, Laura bellissima, noi due senza figli per un giorno, quasi due, come un tempo prima del matrimonio. Ma io ero teso perchè ero li’ per incontrare un mito della mia giovinezza e maturità il chitarrista Michael Rother, colui che più in profondità aveva segnato i territori del Terzo Cinema. La cui musica mi accompagno’ per anni come un’immagine spirituale dell’Icona del tempo e della malinconia facendomi però sentire parte di un disegno più grande che prima o poi si sarebbe rivelato. Ci trasferimmo nella zona universitaria, gradevole e giovane, del centro di Amburgo nel posto prefissato; una birreria. Entrammo, nessuno degli astanti era Rother. Noi eravamo in anticipo. Allo scoccare dell’ora Michael arrivo’ sorridente, in bicicletta, come una persona normale, era vivo, una presenza in carne ed ossa con la quale avrei potuto parlare e alla quale stavo per chiedere una disponibilità “infinita” per girare un film. La mia dichiarazione d’amore fu a dir poco imbarazzante, Laura a disagio per i miei incensamenti, taglio’ nella traduzione le parti più scabrose, tipo l’attribuzione a Rother di avermi salvato più volte la vita con la sua musica o il paragone con Bach, leggermente inferiore a Michael e cose del genere. Rother ascoltava pazientemente i miei sinceri e accalorati complimenti, abbassando a un pò la testa per ripararsi dalle lusinghe. Gli dissi con autorevolezza che non avevo mai udito una musica bella come la sua e che per me il suo stile musicale era classico, rigorosamente composto secondo parametri antichi riconducibili ai fondamenti. Lui si sorprese e mi disse che non aveva mai studiato composizione, in gergo volgare che “non sapeva leggere gli spartiti” ma, suo malgrado, aveva assorbito fin da bambino le note del pianoforte della madre che era una pianista professionale. Meravigliato per la mia acutezza ammise che forse qualcosa di classico era entrato nel suo lavoro sperimentale. La mia ferita sul collo cessò di sanguinare, avevo ricucito una relazione con un mito. Rother, in un momento in cui tutti i post Hendrix si infiammavano di infiniti estenuanti roccheggiamenti, aveva posto il silenzio e l’armonia come basi strutturali di ripartenza e il suono era ritornato ad essere spirituale cioè universale, capace di penetrare nel profondo dell’animo umano e di farti sentire meno solo. Rother accetto’ gratuitamente di lavorare per me e io, ancor oggi non so se mi sono meritato un simile regalo.
Quando arrivai ad Amburgo fui sorpreso dalla fredda e intensa vitalità del porto fluviale, abituato alla mollezza dello scalo di Trieste. Avevo un buco dietro al collo, l’estrazione del lipoma era stata difficile, e la benda mal celava la ferita sierosa. L’albergo era luminoso, Laura bellissima, noi due senza figli per un giorno, quasi due, come un tempo prima del matrimonio. Ma io ero teso perchè ero li’ per incontrare un mito della mia giovinezza e maturità il chitarrista Michael Rother, colui che più in profondità aveva segnato i territori del Terzo Cinema. La cui musica mi accompagno’ per anni come un’immagine spirituale dell’Icona del tempo e della malinconia facendomi però sentire parte di un disegno più grande che prima o poi si sarebbe rivelato.
RispondiEliminaCi trasferimmo nella zona universitaria, gradevole e giovane, del centro di Amburgo nel posto prefissato; una birreria. Entrammo, nessuno degli astanti era Rother. Noi eravamo in anticipo. Allo scoccare dell’ora Michael arrivo’ sorridente, in bicicletta, come una persona normale, era vivo, una presenza in carne ed ossa con la quale avrei potuto parlare e alla quale stavo per chiedere una disponibilità “infinita” per girare un film. La mia dichiarazione d’amore fu a dir poco imbarazzante, Laura a disagio per i miei incensamenti, taglio’ nella traduzione le parti più scabrose, tipo l’attribuzione a Rother di avermi salvato più volte la vita con la sua musica o il paragone con Bach, leggermente inferiore a Michael e cose del genere.
Rother ascoltava pazientemente i miei sinceri e accalorati complimenti, abbassando a un pò la testa per ripararsi dalle lusinghe. Gli dissi con autorevolezza che non avevo mai udito una musica bella come la sua e che per me il suo stile musicale era classico, rigorosamente composto secondo parametri antichi riconducibili ai fondamenti.
Lui si sorprese e mi disse che non aveva mai studiato composizione, in gergo volgare che “non sapeva leggere gli spartiti” ma, suo malgrado, aveva assorbito fin da bambino le note del pianoforte della madre che era una pianista professionale. Meravigliato per la mia acutezza ammise che forse qualcosa di classico era entrato nel suo lavoro sperimentale. La mia ferita sul collo cessò di sanguinare, avevo ricucito una relazione con un mito. Rother, in un momento in cui tutti i post Hendrix si infiammavano di infiniti estenuanti roccheggiamenti, aveva posto il silenzio e l’armonia come basi strutturali di ripartenza e il suono era ritornato ad essere spirituale cioè universale, capace di penetrare nel profondo dell’animo umano e di farti sentire meno solo.
Rother accetto’ gratuitamente di lavorare per me e io, ancor oggi non so se mi sono meritato un simile regalo.
Arthur Frame