venerdì 9 maggio 2014


Intervista ad Andrej Tarkovskij 

 

Chi sei?
Io non so chi sono e, a mio parere, chi siamo è quello che ognuno di noi sa con minore esattezza. E’ molto più facile esprimere il giudizio sugli altri. Di noi stessi sappiamo molto poco e il problema è che siamo incapaci di rivolgerci con attenzione ai problemi interiori dell’uomo.

Sei felice di essere venuto al mondo?
Felice non è la parola giusta. A mio parere questo mondo non è un luogo dove vivere felici e non è stato creato per la felicità dell’uomo, anche se sono in molti a pensare che è questa la ragione della propria esistenza. Penso che siamo su questa terra per lottare affinché dentro di noi lottino il bene e il male, perché il bene vinca e noi ci si arricchisca spiritualmente.

Andrej parlami della tua infanzia
La mia infanzia la ricordo molto bene perché è stato il periodo più importante della mia vita. Quello che ha fissato le impressioni e quello che ha poi preso corpo successivamente nel periodo adulto ed è quel momento nella vita dell’uomo che ne determina tutto il suo futuro, specialmente se è un futuro legato all’attività creativa, all’arte, ai problemi interiori, psicologici. Già Anna Achmatova, la grande poetessa russa, parlava dell’importanza dell’infanzia, quell’infanzia che la sostenne per tutta la vita nella sua opera. In una parola, l’uomo con l’infanzia nutre tutta l’attività creativa del periodo adulto. I miei genitori si separarono nel 1935 o ’36. Vivevo con mia madre, la nonna e mia sorella; in effetti sono cresciuto in una famiglia senza uomini e sono stato allevato da mia madre. Forse questo ha avuto una grande influenza sulla formazione del mio carattere.

La casa della mia infanzia per me è una casetta in un bosco a novanta/cento chilometri da Mosca, dove abbiamo vissuto cinque anni prima della guerra. Ci fu un episodio: un giorno mio padre venne da noi di notte e voleva che mia madre mi lasciasse andare a vivere con lui. Mi ricordo che mi svegliai, sentii quella conversazione, mia madre piangeva e anch’io piangevo ma piano perché non mi sentisse. Avevo già deciso che se anche fosse stata mia madre a chiedermelo, io non sarei mai andato a vivere con lui anche se per tutta la vita ho sentito la mancanza di un padre.

La guerra è stata per noi molto dura. Mio padre era andato al fronte e ci mancava molto. Si continuava ad aspettare lettere che arrivavano solo raramente. Comunque tornò senza una gamba, dopo un’operazione molto difficile in un ospedale militare al fronte. Tornò col grado di capitano e con uno dei riconoscimenti più alti dell’esercito: l’ordine della stella rossa. Due soli pensieri occupavano la mia mente infantile: che la guerra finisse e che mio padre tornasse da noi. Tutta la mia infanzia è legata a mia madre e si capisce, vivevo con lei, mi educava e si prendeva cura di noi. Ebbe una vita molto difficile: aveva terminato quello che adesso si chiama Istituto di letteratura e lì conobbe mio padre, ma quando ci lasciò ella non poté più occuparsi di letteratura e con due figli sulle spalle non riuscì a dare gli esami per avere in mano qualche diploma e andò a lavorare in una tipografia di Mosca. E tutto quello che ho avuto nella vita e le cose più belle che ho, le devo a mia madre, ai sacrifici per farmi diventare quello che sono adesso. Ci fu un momento veramente difficile nella mia vita: ero finito in una vecchia compagnia ed ero molto giovane, avevo circa vent’anni e mia madre mi salvò in un modo molto particolare mandandomi a lavorare con un gruppo di geologi in Siberia dove rimasi un anno intero. Lavorai laggiù come raccoglitore, un semplice operaio. A piedi girai le distese di neve nella taiga. La Siberia, ancora oggi, è rimasta uno dei miei ricordi più belli.

Adesso pensi di aver trovato quello che cercavi da bambino?
Non lo so, è una domanda difficile. E’ evidente che mia madre voleva che io mi dedicassi all’arte, che la mia vita fosse legata all’arte. L’esempio di mio padre era stato per lei importantissimo; lo amò molto, fino alla fine dei suoi giorni. Voleva che gli assomigliassi in qualche modo e così mi ritrovai nell’arte. Non divenni pianista, né direttore d’orchestra, come avrei voluto, né pittore, scultore, tutte cose che pure avevo studiato. A volte mi domandano se ho dei rimpianti. Certo mi dispiace non occuparmi di musica, non essere un direttore d’orchestra, anche perché sarebbe una professione meno dura per me e non si può neanche dire che io in seguito abbia trovato quello che avevo cercato nell’infanzia. Allora non volevo diventare né pittore, né musicista. Il mio carattere somigliava più a quello di una pianta: non pensavo molto, piuttosto sentivo, percepivo.
Quando rivado all’infanzia, mi torna in mente un tempo in cui davanti a me c’era tutta la vita e io ero immortale e tutto era possibile, realizzabile. Chissà se l’infanzia è andata o è rimasta con me. A volte se penso che mi ha lasciato, mi sento perduto. Ritengo però che siano le sensazioni dell’infanzia ad avermi abbandonato ma che lei, l’infanzia stessa, sia ancora accanto a me, come base prima che sostiene la mia attività creativa e anche come spinta alla creazione. Penso che se si fosse perduta nell’oblio, non potrei fare niente nel cinema.

Pensi che la scelta del cinema sia stata per te la strada giusta?
Le mie prime impressioni sul cinema sono state strane; non capivo, non riuscivo a capire che cosa fosse il cinema. Non lo sentivo, non lo percepivo ma sapevo che era una professione dai notevoli aspetti tecnici. Che ci si potesse esprimere con il cinema come con la poesia, la musica o la letteratura, non l’avevo proprio capito. Anche dopo aver girato l’Infanzia di Ivan, non avevo ancora afferrato quale fosse il ruolo del regista. E’ stata una ricerca, un cercare a tentoni dei momenti di contatto con la poesia. E solo dopo aver girato questo film, mi accorsi che era possibile attraverso il cinema venire in contatto con un’essenza spirituale. L’esperienza dell’Infanzia di Ivan è stata per me importantissima perché prima di allora non avevo la minima idea di che cosa fosse in fondo il cinema. Neanche adesso sono così convinto di sapere che cos’è il cinema. A parer mio è un mistero, immenso, come del resto ogni altra forma d’arte.

A quel tempo l’Infanzia di Ivan provocò grosse polemiche fra i critici. Dopo tanti anni cosa ne pensi?
La polemica sull’Infanzia di Ivan fu condotta prevalentemente da Sartre e da Moravia. Quest’ultimo mi criticò e Sartre mi difese. Devo dire comunque che lessi l’articolo di Moravia con estremo interesse. In effetti distruggeva il mio film pezzo per pezzo, ma lo lessi con piacere perché la sua critica era ad un livello così alto, il suo pensiero così preciso e ben formulato che fu quasi un piacere essere criticato da lui. Per quanto riguarda Sartre mi difendeva da posizioni troppo filosofiche e speculative perché la sua difesa mi convincesse.

Per molti il cinema è soltanto un lavoro. Per te Andrej che cos’è il cinema?
Non sono mai riuscito a separare la mia vita dai film che facevo. I film sono sempre stati per me una parte della mia esistenza e per poter girare un film ho sempre dovuto operare delle scelte fondamentali. Molti riescono a separare la propria vita dai film che realizzano. Conosco molti che vivono in un modo e nei film dicono tutt’altra cosa, esprimono tutt’altre idee. Riescono a scindere la propria coscienza dai film che fanno. Io non ci sono mai riuscito: per me il cinema non è una professione, è la mia vita ed ogni film lo considero un azione della mia vita.

Che ne pensi del cinema d’autore?
Per me coloro che rimarranno nella storia del cinema come autori, sono tutti poeti. A mio avviso esiste una legge: il cinema d’autore è un cinema di poeti e tutti i grandi registi contemporanei sono dei poeti.
Ma che cos’è un poeta nel cinema? E’ un regista che crea il proprio mondo e non tenta di riprodurre la realtà che lo circonda. Ed’è questo loro cinema che noi definiamo d’autore: cinema poetico.


Andrej tuo padre era già allora uno dei più grandi poeti russi. Parlami di lui.

Mio padre è senz’altro il più grande poeta russo, con una possente intonazione lirica e carica spirituale nella sua poesia. E’ un poeta in forma pura, un poeta per il quale la cosa principale è il concetto interiore, spirituale della vita, il senso del debito profondo che egli avverte nei confronti della propria terra, della propria patria e del proprio ruolo.

Che cos’è l’arte?
Prima di formulare un concetto, in questo caso sull’arte, dobbiamo rispondere a un’altra domanda molto più vasta, ovvero qual è il senso dell’esistenza dell’uomo su questa terra. Forse il fine nostro su questa terra è quello di innalzarci spiritualmente. Se la nostra vita tende a questo arricchimento spirituale, l’arte è uno dei mezzi per arrivarci. Si, almeno così io ritengo, in armonia con la mia definizione sul senso della vita. Non so, c’è chi afferma che l’arte serva all’uomo per conoscere il mondo, che l’arte è conoscenza come qualunque altra attività intellettuale dell’umanità. Io, tanto per cominciare, non credo troppo a questa possibilità di conoscenza. Essa ci distoglie sempre più da quello che dovrebbe essere lo scopo principale della nostra vita, e quanto più ne sappiamo, tanto meno ne sappiamo perché andando in profondità, perdiamo in ampiezza. L’arte serve all’uomo per elevarsi spiritualmente, innalzarsi al di sopra di se stesso, per usare ciò che noi definiamo “libero arbitrio”.La pressione cui è sottoposto Rublev non è un’eccezione: ogni artista è sempre sottopressione e non lavora mai in condizioni ideali. Inoltre, se tali condizioni esistessero, forse non esisterebbe il suo lavoro perché l’artista non vive in un vuoto senz’aria. Una pressione deve esserci anche se non saprei dire di che tipo. E l’artista esiste proprio perché il mondo non è perfetto e l’arte non sarebbe necessaria a nessuno se il mondo fosse il regno dell’armonia e della bellezza. L’uomo non ricercherebbe in occupazioni collaterali l’armonia perché vivrebbe già in essa. L’arte nasce da un mondo mal congeniato, ricerche di accordi e di significati che si esprimono nei rapporti armonici tra gli uomini, tra l’arte e la vita, tra il tempo e la storia. Un altro tema per me molto importante è quello dell’esperienza dell’uomo. Con questo film volevo dire che non è possibile trasmettere la propria esperienza personale, imparare da qualcuno a vivere. Bisogna solo vivere e trarne qualche conclusione che non puoi lasciare agli altri in eredità. Spesso si sente dire: bisogna usare l’esperienza dei nostri padri. Ma sarebbe troppo semplice perché ognuno di noi deve farsi per conto proprio una sua esperienza e quando ci arriviamo è il momento di morire, purtroppo, e non abbiamo il tempo di usarla. Intanto vengo su le nuove generazioni che si rifiutano di ascoltare i vecchi e fanno bene, cercano una loro esperienza e quando la trovano anche la loro vita è alla fine. E’ la legge della vita, il suo significato.
Il cinema è la forma più infelice d’arte, in quanto dipende in misura notevolissima al denaro e non soltanto perché un film costa molto, ma anche perché se ne fa commercio come con le gomme da masticare o le sigarette. Il principio è che un film è buono se si vende bene e se noi pensiamo che il cinema è arte, ci sembra allora assurdo impostare così il problema in quanto sarebbe assurdo dire che l’arte è buona soltanto se la si vende bene. Se vogliamo attrarre le masse, non possiamo aspettarci opere di grande ingegno poetico.

Che cosa ne pensi della scienza, nel bene e nel male?
Si può dire che dopo un lungo processo storico, siamo arrivati nella nostra civiltà a un punto di terribile conflitto all’interno dell’uomo perché c’è un enorme dislivello tra il progresso scientifico e quello spirituale. E noi continuiamo ancora ad aumentare questo dislivello, motivo principale della nostra drammatica situazione. Siamo una civiltà al limite della distruzione atomica, proprio a causa di tale divario tra queste sfere dell’uomo.

E tu, come ti poni nei confronti del mondo?
Tendo ad avere un approccio con il mondo più a livello emotivo e contemplativo. Non cerco di ragionarci su, ma di percepirlo quanto può fare un animale o un bambino e non un adulto che è in grado di ragionare sulla vita traendone le conclusioni.

Andrej cosa vuoi dire ai giovani?
Vorrei semplicemente che imparassero ad amare di più la solitudine, a stare a tu per tu con se stessi. Mi sembra che il guaio della gioventù sia quello di tendere ad aggregarsi per portare avanti un azione rumorosa, addirittura aggressiva per non sentirsi soli, il che è piuttosto triste. L’individuo deve imparare fin dall’infanzia a vivere da solo e questo non significa essere soli. Significa non annoiarsi con se stessi, che è un segno di pericolo, quasi di malattia.

Ami i bambini?
I bambini sono innocenti così come gli animali, che lo sono proprio per la loro natura. Invece l’uomo, che ha la capacità di scegliere tra il bene e il male, impara poco a poco a mentire perché così ritiene di poter vivere con maggiore felicità e di ottenere un maggior numero di beni. Prima magari con la sola diplomazia, per passare poi alle menzogne vere e proprie.

Cosa rappresenta per te l’acqua?
L’acqua, i ruscelli, i fiumiciattoli, mi piacciono molto, è un’acqua che mi racconta molte cose. Il mare, invece, lo sento estraneo al mio mondo interiore perché è uno spazio troppo vasto per me. Non mi fa paura, è semplicemente una superficie troppo monotona. A me, per il mio carattere, sono più care le cose piccole, il microcosmo, piuttosto che il macrocosmo. Le enormi distese mi dicono meno di quelle limitate. Forse per questo amo molto l’atteggiamento dei giapponesi nei confronti della natura. Cercano di concentrarsi su uno spazio ristretto e di vedervi il riflesso dell’infinito.

Hai mai conosciuto la miseria?
Ho fatto la fame, la fame sul serio, cioè quando non puoi sperare in un pezzo di pane per il giorno dopo. E’ una sensazione dura, che umilia l’individuo, ma che ti insegna anche la compassione per gli altri. Chi ha fatto veramente la fame non potrà mai essere avido

Che cos’è la ricchezza?
Per me la ricchezza non significa niente di speciale, mi potrebbe solo garantire quel tipo di vita che vorrei vivere e dato che io desidero una vita molto semplice, non credo che vorrò mai essere ricco. La ricchezza è una cosa relativa e l’uomo non ha bisogno di essa perché quando ce l’ha comincia a cambiare dentro, diventa avido, comincia a difendersi dagli altri, a difendere la propria ricchezza e poi ne diventa schiavo.

Che cosa ti spaventa di più nella vita?
Avverto la natura inerme dell’essere umano, compresa anche la mia, la nostra debolezza davanti al mondo e alla natura, soprattutto di fronte ad un altro essere ostile. Scontrarsi con l’ostilità umana è la cosa peggiore che possa esistere.

Che opinioni hai riguardo la donna?
La cosa a cui più tengo è che la donna rimanga tale. Io non capisco quando una donna chieda dalla vita qualcosa di diverso, un approccio particolare, non più come donna ma quasi come uomo. Le donne la chiamano eguaglianza. La bellezza della donna, il suo essere unica, sta proprio nella sua essenza che non è diversa, bensì opposta a quella dell’uomo. Mantenere questa propria essenza è il suo dovere più importante. Io non ho mai trovato una donna attraente priva delle sue prerogative, compresa la debolezza, la femminilità, il suo essere l’incarnazione dell’amore in questo mondo. Ho un grande rispetto per le donne.

 

 

 

 

 

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